Non c’è, si dice, “due senza tre”. Forse la Brexit – pericolosa e complessa, estremamente “messy” – vale già due per il Regno Unito. La prudente regola in diplomazia è di guardare a queste situazioni e di chiedersi, in maniera non-retorica: “Cosa potrebbe succedere di peggio?
La molto amata Regina Elizabetta II ha da poco compiuto i novant’anni. Forse la domanda se l’è posta anche lei. Un paio di giorni fa a un ricevimento, quando un incolpevole Vice-primo ministro irlandese le ha chiesto “Come sta?”, ha risposto con il poco protocollare: “Beh, almeno sono ancora in vita”…
La settimana prossima guarderemo a cosa succederebbe nel malaugurato caso che alla Gran Bretagna venisse improvvisamente a mancare non una sola istituzione centrale alla vita del Paese, ma due.
Intanto, la Nota di oggi esamina la successione – e le opinioni – di un altro notevole sopravvissuto, il Dalai Lama.
Il Governo cinese, rassegnato a dover sopportare il Dalai Lama fino alla fine della sua (augurabilmente lunga) vita, intende comunque gestire la successione. Nel 2007 lo “State Religious Affairs Bureau Order No. 5” ha introdotto l’obbligo di ottenere un’appropriata—e preventiva— autorizzazione per chiunque si troverà a incarnare il “Buddha vivente” in futuro. Il regolamento, che ha
effetto di legge, è chiaro nell’intento: “La selezione dei reincarnati deve conservare l’unità nazionale e la solidarietà di tutti i gruppi etnici, e il processo di selezione non potrà essere influenzato da gruppi o individui operanti fuori dal Paese”…
La procedura è gestita con il consueto pragmatismo cinese. L’autorità di concedere le autorizzazioni alla reincarnazione è stata perlopiù demandata alle amministrazioni territoriali interessate e i permessi sono stati—nei fatti—semplicemente messi in vendita. A gennaio dell’anno scorso, il Governo cinese aveva già riconosciuto il diritto di reincarnare il Buddha a 870 pretendenti, ognuno con tanto di numero di registrazione e una speciale tessera di riconoscimento, una misura “anti-frode”.
Così lo Stato cinese si assume il potere di decidere chi sarà il “vero” Dalai Lama in futuro e simultaneamente abbassa, di molto, il prestigio del ruolo. E infatti, l’attuale Dalai Lama—al secolo, Tenzin Gayatso, il 14° della stirpe—in una dichiarazione del 2011 ha descritto il meccanismo come “oltraggioso” e “vergognoso”. Il problema è che Tenzin ormai ha 81 anni—cioè, il suo corpo ha 81 anni— e per quanto pare stia bene in salute, prima o poi il nodo arriverà al pettine. Ha più volte accennato alla possibilità che potrebbe essere lui l’ultimo Dalai Lama, un modo come un altro per evitare che siano i burocrati atei di Beijing a scegliere il suo successore.
Ne sentiremo la mancanza. È tra i pochissimi personaggi di primo piano al mondo a restare sempre coerente a se stesso, assistito nel compito dalla straordinaria disponibilità dell’Occidente ad ammirare l’uomo mentre ignora attentamente i suoi pronunciamenti, per niente “politically correct”: come la sua candida—seppure cinica—osservazione dell’anno scorso che se ci sarà mai una Dalai Lama femmina, allora dovrà essere molto, molto carina perché altrimenti nessuno le presterà attenzione.
L’osservazione “sessista” è perfettamente coerente con le sue molte dichiarazioni negli anni su come gli uomini non dovrebbero abbassarsi ad accompagnare le donne. Nel 2006 ha spiegato: “Il Buddhismo e il Cattolicesimo hanno i loro motivi per preferire il celibato. Uno di questi è che ci permette di restare distaccati. Vedete, il desiderio e l’attaccamento possono essere ostacoli per la nostra spiritualità”. All’inizio di giugno, in una spettacolare intervista alla tedesca Frankfurter Allgemeine Zeitung, il premio Nobel per la pace ha commentato—sempre con lo stesso devastante candore—sul flusso di migranti mediorientali verso l’Europa: “Se guardiamo i profughi in faccia, soprattutto le donne e i bambini, proviamo compassione… D’altra parte, nel frattempo sono diventati troppi. L’Europa e la Germania non possono diventare arabe. La Germania è la Germania”. E il Tibet è il Tibet, sembra voler dire, anche se è stato obbligato all’esilio permanente dal suo Paese a partire dall’invasione cinese del 1959.